martedì 29 ottobre 2013

Immortalità velata


Un raggio di sole filtra tra le grate del lucernario e, danzando con il pulviscolo, attraversa il cupo ambiente, fermandosi solo per accarezzare un blocco bianco, posto al centro della stanza.
Scivolo con lo sguardo verso quella luce, facendomi strada tra polvere e oggetti avvolti in vecchi stracci. Pareti intonacate in gesso regalano profondità a un ambiente piccolo e angusto. Un drappo di stoffa copre la finestra, creando la giusta penombra, compagna solitaria del mio pensiero.
Una spessa polvere bianca, retaggio del mio lavoro, ricopre a tratti il pavimento in pietra, levigato dal tempo.
Ascolto rapito il chiacchiericcio dei miei pensieri e, ormai distante dal mondo, mi lascio cadere a terra. Forme e colori si accavallano nella mia mente, acuendo l'ansia creativa, fedele compagna della mia vita.  
Il vociare della strada entra irruente dalla porta semiaperta, gli artigiani delle botteghe vicine, in fermento per l'avvicinarsi del Natale, discutono animatamente, fingendo di scambiarsi segreti, nel malcelato tentativo di carpirli.
“Joseph, è arrivato il tempo di destarsi, il lavoro incombe e la curiosità verso le tue creazioni cresce.”
La voce del maestro zittisce i miei pensieri. I pastori in terracotta attendono di essere rifiniti e, non volendo mostrare la mia frenesia di collaborare alla nuova commissione, mi dirigo verso il tavolo da lavoro, limitandomi ad annuire.
“Le tue testine del presepe sono da sempre invidiate, nessuno fra i nostri chiassosi vicini è così attento nel cogliere il carattere di ogni singolo personaggio.”
Le parole si perdono e si fondono al silenzio, mentre le mie pennellate disegnano il volto indurito dal sole di un pescatore, un uomo dal temperamento audace, evidenziato da un minuzioso chiaroscuro, spalle curve e sguardo stanco, con un solo bagliore di speranza negli occhi, la punta del pennello, intrisa di bianco, che si appoggia leggera sull’iride.
Animali, plasmati nell’argilla, cuociono nella fornace, opere ancora incompiute con un’anima pronta per essere mostrata.
Pochi accorgimenti mi separano dalla conclusione di un lavoro complesso, mai parco di soddisfazioni, anche se la mia mente vola altrove, sempre più spesso, verso quel blocco bianco posto al centro della stanza.
Un desiderio atavico e inspiegabile mi spinge ad avvicinarmi, a toccarlo. L’esigenza di percepirne l’essenza è talmente forte che quasi mi spaventa.
Resto così immobile, consapevole che anche il minimo passo potrebbe cambiarmi la vita.
Nuovi animali, plasmati nell’argilla, cuociono nella fornace.
Esco il necessario, evito di scambiare parole con gli altri artisti che affollano il vicolo, rifuggo le domande sul mio lavoro, tutti vorrebbero sapere quali nuovi personaggi comporranno il mio presepe quest’anno, tutti, tranne me.
I giorni si susseguono alle notti, non sento più l’esigenza di dormire, il mio materasso rimane inutilizzato in una stanza poco distante da qui, arriverà il tempo per condividere ancora con lui il mio sonno, ma non oggi, che mi limito a riposare, quando mi sento esausto, su un giaciglio di paglia improvvisato, a pochi passi dal blocco bianco.
L’immedesimazione è necessaria per chi, come me, vive di rappresentazione e questa sistemazione di fortuna è oltremodo adatta, mentre porto a compimento il mio presepe.
Il modello per il committente, plasmato dal maestro, giace solitario in un angolo della bottega, il pescatore in terracotta sembra osservarlo in un misto di sospetto e speranza. Quel bagliore negli occhi, la pura essenza della trasposizione!
Gli animali, plasmati nell’argilla, giacciono sul tavolo da lavoro, insieme alla sacra famiglia, pastori e venditori ambulanti, opere ormai compiute con un’anima pronta per essere mostrata.
“Joseph, quanta meraviglia, a lungo si sentirà parlare di questo tuo presepe!”.
Il maestro soddisfatto torna al suo modello, passi lenti, dettami del tempo che avanza e della fine che si accinge a compiersi, inesorabile.
“Una volta appresa la soddisfazione del committente, inizierà il tuo lavoro al mio fianco, la tua naturale bramosia troverà così appagamento.”
Parole, come ossigeno vitale che alimenta la fiamma della mia creatività, consolidano pensieri che si plasmano come argilla nella mente.

La fornace accesa rende l’aria insopportabile, il suo tepore, amico nelle fredde notti, è ormai una condanna. L’estate è alle porte e i miei disegni, raffiguranti reliquie sacre, sono quasi pronti per essere consegnati al committente.
Il maestro si presenta di rado in bottega e, potendo gestire liberamente ogni commissione, mi trovo sempre più spesso a dividere il mio tempo con quel modello in terracotta che, accolto senza riserve, aspetta di ottemperare alla sua funzione di guida, alimentando la mia frenesia. 
Ci sono notti più lunghe di altre, in cui la luna, con la sua aura d’argento, si riflette sul blocco bianco, creando giochi di luce e ombre, disegnando i contorni di un’anima rinchiusa che brama di venire al mondo. Le mie mani sfiorano la superficie, sento i calli dolere a contatto con la nuda pietra, lacrime calde mi solcano il viso, mentre mi lascio cadere, estasi suprema che culmina in stanchezza, il sonno mi coglie così, abbracciato a una vita nel marmo.
Mi risveglio, soppeso gli scalpelli avvolti in vecchi stracci, avvicino la subbia al blocco, un fremito mi pervade, energie che si mescolano, tentativo estremo di resistere a un atto desiderato e procrastinato nel tempo. 

In una calda mattina estiva il vento di maestrale prende con sé l’anima del maestro, lasciando il suo corpo, ormai privo di vita, pronto per l’estremo saluto.
Sentimenti contrastanti i miei, una sofferenza priva di disperazione mi accompagna, nessun artista muore mai completamente se potrà essere ricordato nelle sue opere. Vivrà per sempre in un incontro di anime, liberate dalla stessa prigione. Questa è la mia consolazione.

Erede della bottega, muovo i primi passi alla ricerca di commissioni, non riuscendo però a dimenticare quel modello abbandonato, come se una forza superiore mi legasse a lui e mi portasse a svolgere il mio lavoro mai completamente appagato.
Statue in argento, reliquie sacre, nuove testine per il presepe, l’estate cede il passo all’autunno e mi ritrovo impreparato, incapace di staccarmi da quel blocco bianco che vive ormai in me, con la sua anima imprigionata.
La fornace accesa torna a provocarmi piacere, sono ormai lontani i tempi in cui cercavo refrigerio al minimo refolo di vento. Una nuova stagione è ormai alle porte, con il suo carico di lavori cui far fronte.
In una mattina tersa, battuta da una tramontana tesa, convocato dal committente del maestro, mi dirigo verso il suo palazzo, sicuro di dover restituire il modello per lui concluso. Inimmaginabile è la mia sorpresa nel trovarmi invece davanti a un notaio, pronto a mettere nuovi sigilli sul carteggio della commissione per quell’opera da me così bramata.
Lo scultore Joseph s’impegna a eseguire di tutta bontà e perfezione la statua a lui commissionata, così recitano le prime righe del contratto, poche parole a suggellare l’inizio di una nuova vita.

Sfioro le grigie striature del marmo, che invadono, in maniera equilibrata, l’intera superficie, linfa vitale di un corpo inanimato, ferme, come congelate, nell’attesa che qualcuno dia loro nuova vita.
Passo la notte sdraiato su questo blocco freddo, ne carpisco l’essenza, respirandone il profumo. Disegno nella mente il corpo racchiuso nella pietra e mi preparo a liberarne l’anima.
L’alba mi trova addormentato, mentre il parlottio fuori dalla porta mi spinge a destarmi.
Libero gli attrezzi dagli stracci, metto gli scalpelli nella bocca della fornace, portandoli a diventare color rosso ciliegia, li immergo rapidamente in acqua fredda per fissarne la durezza. Una volta raffreddati, li scaldo nuovamente, ammorbidendoli, fino al raggiungimento di un colore giallo oro, la giusta tempra per la lavorazione del marmo.

I colpi decisi del mazzuolo sulla subbia rimbombano nella stanza, s’insinuano fra le maglie del silenzio, pezzi di marmo cadono a terra, si sbriciolano, i muscoli del braccio, tesi, assecondano il movimento della mano, stretta intorno allo scalpello.
Il corpo rinchiuso nella pietra, ancora costretto in una forma spigolosa, si lascia intravedere, la sbozzatura è un processo lento, un percorso faticoso che porta alla rinascita.
Non esiste più mondo al di fuori di queste quattro mura, lavoro e riposo, sonno e veglia, si assecondano e si contrastano, per unirsi poi in quest’ansia creativa che accompagna ogni mia giornata.
Le mani mi dolgono, nuovi calli si sommano ai vecchi, le braccia non trovano riposo, mentre i miei occhi scorgono, nel marmo appena sbozzato, l’anima di un uomo inerme, così bramoso di venire al mondo.
La gradina spiana le protuberanze lasciate dalla subbia, definendo i particolari, un corpo, steso su un materasso con due cuscini, prende così lentamente forma.
Il vocio nel vicolo si fa a tratti più intenso e scandisce il tempo, diventando il mio unico punto di riferimento con il mondo esterno.
La stagione calda è ormai alle porte e la fornace accesa genera un eccesso di calore, il sudore si mischia alla polvere di marmo, creando una patina umida sulla mia pelle, i tendini in estensione diventano evidenti sul mio braccio, mentre lavoro senza sosta per portare a termine la mia opera.
La gradina scolpisce, scarnifica il corpo ancora senza vita, definisce le morbide coltri che lo coprono, quasi a raccoglierlo, la pietra pomice ammorbidisce le forme, evidenzia i particolari, la vena gonfia, pulsante sulla fronte, le trafitture sottili su piedi e mani, il costato scavato e finalmente rilassato nella morte liberatrice.
Un corpo sublime che scioglie il marmo, lo ricama fino al merletto che si ripiega nell’angolo accanto al suo piede sinistro, la corona di spine, il chiodo e la tenaglia giacciono sul materasso, a suggello di una sofferenza passata.
Il sudario lo ricopre, la pietra diventa liquida in una trasparenza perfetta, inesistente il suo peso, visibile per magia ottica, incantesimo della materia, il velo che lo separa dai viventi, è il corpo stesso che lo genera, piegando il marmo in morbide onde.

È un attimo, il mazzuolo e lo scalpello toccano il pavimento, in ginocchio, con le braccia lungo il corpo, esausto, appoggio il viso sul costato di quell’uomo scolpito, fra lacrime copiose mi addormento, in un’unione di anime.

                                                         ‘Joseph Sanmartino fecit’

"Cristo Velato" Cappella Sansevero, Napoli

mercoledì 10 aprile 2013

Un euro e cinquanta al chilo.


Ho navigato per mare e vissuto a contatto con la nuda terra.
Ho goduto del piacere di sentire il sole addosso e sofferto quando il vento raccoglieva le forze per trasformarsi in tempesta.
Ho abbandonato la mia casa, pur non essendomene mai andato.

México 1519
Hernán Cortés partito da Cuba, con una piccola armata di furfanti e mercenari in cerca di oro e fortuna, raggiunge le valli del Messico, nel tentativo di soggiogare e convertire le tribù indigene, in nome del re di Spagna, Carlo I.
Montezuma, imperatore azteco temuto e venerato come un dio, attende con trepidazione l’arrivo preannunciato del misterioso straniero, senza però intuire le sue reali intenzioni.
Astuto e ingannevole, il conquistatore non si lascia attendere e, invitato a corte dall’imperatore, raggiunge la capitale, Tenochticlàn, definita ‘città dei sogni’ per la sua maestosità e imponenza. Montezuma, durante un colloquio con lo straniero, è fatto prigioniero, dando così inizio all’imminente disfatta dell’impero, che culminerà con la nomina di Cortés a governatore della neonata colonia, denominata ‘nuova Spagna’.

Il calendario azteco, scolpito in un monolite di roccia basaltica, è vicino a segnare la fine delk’atun, quando per Cortés, richiamato in patria, arriva il momento di partire, di lasciare quella terra ostile resa docile con la forza.
Caricata la stiva di oro e di semi di papaya, patate, cacao, vaniglia e tomati, l’equipaggio è pronto a lasciare gli ormeggi.
Cortés, in piedi vicino all’albero di bompresso, si gira un’ultima volta, prima che il galeone spieghi le vele per ricondurlo in Spagna.
La casa di legno e mattoni di argilla, che lo aveva ospitato durante gli anni della conquista, lascia intravedere il suo tetto di canne, mentre il veliero prende il largo.

Ho percepito rollio e beccheggio farsi forti durante la tempesta e ho respirato aria nuova nel sentire annunciare ‘terra!’.
Troppo bello perché sia buono, questa è la mia condanna.
Di provenienza certa, ma di nome non sicuro, aspetto inerme che sia dato un senso al mio destino.

Italia, 1544
Pietro Mattioli, chiuso nella sua serra, osserva le piante importate da Cortés.
Sfiora le foglie con le mani, prende i frutti, li soppesa, studia colori e dimensioni.
Riporta ogni singolo parametro con cura in un taccuino. Ogni dato, messo nero su bianco, servirà in seguito a completamento della sua opera.
Pietro, noto erborista, sta componendo, infatti, il suo “Herbarius”.

Un frutto giallo e polposo attira la sua attenzione, mentre il sole ne evidenzia le screziature.
‘Mala aurea’, pianta velenosa con evidenti poteri afrodisiaci.
Pietro, pur ammettendo che Cortés avesse segnalato un uso alimentare di questa pianta da parte degli Aztechi e di aver sentito che qualcuno ne mangiasse i frutti fritti nell’olio, decide comunque di non cambiare la sua classificazione.

Usata da alchimisti e fattucchiere come ingrediente nelle proprie pozioni.

Pozione per rinforzare il proprio vigore fisico e sessuale, rigenerando il desiderio di amore:
Si mettano in una pentola in parti uguali: salvia officinalis; fiori di cedro; buccia di cetriolo; semi di melone; fiori e corteccia di cannella; polpa di mala aurea.
Si aggiunga quindi una quantità uguale di alcol e si faccia bollire per cinque minuti. L’infuso alcolico bevuto ogni sera produrrà in sé gli effetti desiderati.

Pianta ornamentale, data la sua naturale bellezza.

Introdotta così in Europa, Sir Walter Raleigh, navigatore e poeta, la porta in Inghilterra per farne dono alla regina Elisabetta I che, affascinata dal suo aspetto e dal suo potere raccontato, la battezza ‘love apple’.

Ho vissuto la mia vita, insieme a quella di tanti altri.
Ho sopportato il mio essere incompreso, bistrattato, per poi essere difeso.
Ho chiesto solo un po’ di sole, per dare in cambio cibo e amore.

Non è ben chiaro come e dove, nell’Europa barocca, il frutto compaia sulla tavola di qualche coraggioso, oppure affamato, contadino. Dato certo è che, verso la fine del 1700, la coltivazione alimentare della mala aurea riceva un forte impulso nel vecchio continente.

Mentre in Francia il pomme d’amour viene consumato solo alla corte del re, in Italia la mala aurea diventa di grande uso fra la gente.
Lazzaro Spallanzani, gesuita e naturalista, durante alcuni esperimenti di conservazione dei cibi, scopre che gli estratti di questo frutto, bolliti e messi in contenitori chiusi, non si alterano.
L’uso culinario della mala aurea inizia così a diffondersi in Europa con grande rapidità.

Paradossalmente, nel nuovo continente dal quale proviene, la sua affermazione, come frutto commestibile, trova invece molte più difficoltà, a causa della diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici.

Salem, New Jersey, 1808
Robert Johnson, avvocato che si occupa di questioni agricole, di ritorno da una missione in Italia, dove aveva potuto vedere consumare mala aurea, decide di portarne qualche seme con sé.
Nella speranza di far conoscere a tutti il suo uso alimentare, organizza un premio per il frutto più grande dell’anno.  
Il tentativo di coinvolgere i suoi concittadini fallisce. Estirpare il preconcetto, ancora radicato, che quella fosse una semplice pianta ornamentale, per giunta velenosa, non si dimostra un’impresa facile.

Gli anni passano e nulla cambia
Nel 1820il colonnello Johnson prova allora a dare una svolta a questa situazione di stallo. Davanti al municipio e alla presenza di una folla prevenuta, decide di mangiare mala aurea per sfatare il falso mito della sua velenosità.
Mentre la banda locale suona canzonatoria l’inno funebre, si appresta a dare inizio alla sfida.
La gente attonita lo osserva mangiare di gusto il frutto giallo e, rendendosi conto che il colonnello non solo non muore, ma anzi sembra apprezzare, si unisce al banchetto.

Nonostante il clamore dato dalla notizia, battuta da molti giornali nazionali, riguardante l’impresa di Johnson, il mito non può però ritenersi ancora sfatato.
Nel 1862, infattialcuni avversari politici del presidente Lincoln convincono il cuoco della Casa Bianca a preparare una pietanza a base di mala aurea, nel tentativo di avvelenarlo. 
Il presidente, che solo dopo cena scopre la congiura, diviene in questo modo un appassionato consumatore di questo frutto.

La mala aurea si trasforma così in tomato, nel rispetto del nome originario azteco di ‘tomati’, vincendo finalmente ogni tipo di resistenza.

Ho navigato per mare e vissuto a contatto con la nuda terra.
Ho conosciuto la fama, tanto da farmi girare la testa.
Ho avuto molti ruoli, anche se in realtà resto sempre e solo un pomodoro.

Immagine da web



NOTE EXTRA RACCONTO:
-       Tenochticlàn è l’attuale Città del Messico
-       Un K’atun, secondo la struttura del calendario azteco, corrisponde a 7200 giorni.
-       “mala aurea”, nome dato al pomodoro da Pietro Mattioli in virtù dei suoi frutti gialli.

Alfonso, il gatto ganzo.

(di Valentina Luberto e Chiara Lazzaro)

Ditemi se si può andar via per una lisca di traverso!
Io quel pescetto l’ho pappato in un sol boccone solo per far colpo su Lola, una dolcezza tutta pelo bianco e fusa. Quella gattina mi desiderava, io su certe cose non posso sbagliarmi, sono un playcat e quello sguardo fisso su di me era inequivocabile: mi mangiava con gli occhi. Lei mangiava me e io dovevo mangiare il pescetto senza troppi complimenti, così avrebbe capito all’istante quanto fossi determinato!
L’amor mi è stato fatale e il prossimo che dice "d’amore non si muore", lo riempio di graffi!
Per quella gattina n’è valsa la pena e un gatto seduttore come me non poteva che andar via così: lasciando un cuore inconsolabile per sempre.
Andar via…
In verità, io sono ancora qui, o meglio, ci sono, ma sono meno evidente, non mi faccio notare, non mi vede nessuno, sono un fantasma, ecco. Ho una missione, nessuno me l’ha detto, ma ho visto tanti film sull’argomento. Se non sono ancora andato è perché devo portare a termine qualcosa. L’unico pensiero che mi viene in mente è: Luigino, sveglia!
È il mio padroncino ed è innamorato. Una cosa naturale alla sua età, direte voi. Un’impresa impossibile farlo lanciare, dico io. Ho deciso che la mia missione sarà aiutarlo a conquistare la brunetta con la puzza sotto il naso, insomma, quella che gli piace tanto.
Luigino, non temere, Alfonso il gatto ganzo è qui per te!


Sono mesi che mi preparo per questo momento.
Da quel giorno che ho incontrato Domitilla, davanti alla pasticceria, non riesco a pensare ad altro.
Mi sento incoraggiato, ha sorriso, sentendo pronunciare il mio nome.

Luigino, non partire in quarta che tu hai difficoltà anche a partire in prima.
Ha sorriso?
Per forza!
Un giovanotto grande e grosso che si presenta come Luigino!

Davanti ai suoi occhi, anche i babà ripieni di crema, che facevano bella mostra di sé nella vetrina, hanno perso in un attimo ogni attrattiva.

Tu che rinunci a un babà ripieno? La cosa è seria.

Solo Domitilla riuscivo a vedere.

Sfido! Con quella patata al posto del naso!
Sei proprio sicuro che questa Domitilla ti piaccia?
Luigino?
Mi senti?
No, non mi sente.

Mammina sarebbe fiera di me, o forse no. Mi sembra di sentirla raccontare al gatto Alfonso quanto io sia bambacione. Come se la colpa, poi, fosse solo mia.

Tu senti lei, ma non puoi sapere quante volte abbia voluto spegnerla quella voce da trombone intasato. Lascia stare quello strumento sfiatato! Vuoi conquistare Domitilla, concentrati su questo.
Che vada a strombazzare altrove, mammina.


Sono cresciuto senza un padre e con una madre che seguiva, borbottando, ogni mio passo.
Anche quando provavo ad allacciarmi le scarpe, dovevo essere supervisionato da lei.
“Non si sa mai cosa possa succedere, se ti tagliassi un dito?”.

A lei avrebbero dovuto tagliare la lingua!

Ho indossato il papillon a pois che mi ha regalato lei il giorno del diploma; una spruzzata di acqua di colonia, quella per le grandi occasioni; ho addirittura lucidato le scarpe come da buon figlio mi è stato insegnato.

E le avrebbero dovuto tagliare anche la carta di credito quando ti ha comprato quell’orrendo papillon a pois. Un pugno nell’occhio.
Non dirmi che l’acqua di colonia è quella al borotalco che ti ha regalato, sempre mammina, il giorno della prima comunione. Nauseabonda.
Taccio sulle scarpe, non saranno le stringate in finto coccodrillo? Sono quelle, come non detto.

La camicia stirata di fresco è un po’ più aderente rispetto all’ultima volta che l’ho indossata per il matrimonio di zio Ernesto.

No, la camicia del matrimonio di zio Ernesto, no!
È un appuntamento o una festa in maschera?

Lo specchio è implacabile a evidenziare i troppi babà ripieni che mi hanno fatto cadere in tentazione!

Luigino, l’esubero di girovita è davvero l’ultimo dei tuoi problemi.
Sai come si dice, “uomo di pancia, uomo di sostanza”.
Piuttosto, dobbiamo trovare un modo per distrarre Domitilla dalla tua mise.

Il tempo di un’ultima occhiata alla mia immagine riflessa, un saluto a mammina che mi guarda sconsolata e mi ritrovo in strada, a pochi passi dal mio amore.

Basta guardarsi inutilmente allo specchio. Quel che è fatto è fatto e per te, conciato così, c’è ben poco da fare. Adesso, molla mammina e vai!

Giro l'angolo e la vedo in tutta la sua bellezza. Domitilla è ferma davanti alla pasticceria, e, invece di correrle incontro, mi blocco.

Devo fare qualcosa. Ehi, voi lassù! Mi rivolgo soprattutto alle gattine fantasmine, se mi volete lì, aiutatemi a spingere questo ragazzone verso la sua bella, carina, passabile, va be’, piace a lui.

Non riesco a fare un passo, ho le mani sudate, il cuore batte all'impazzata. Sembrava così semplice mentre facevo le prove davanti allo specchio.
Oh, se il gatto Alfonso fosse con me! Lui saprebbe come aiutarmi.

Ci sono Luigino, vai!

Improvvisamente mi sento sfiorare una gamba, guardo verso il basso ma non vedo niente. È come se qualcosa mi spingesse ad andare, sempre più insistente.

Che fatica. Ti concedo un ultimo babà, proprio perché è il tuo primo appuntamento, ma la prossima volta che ne prendi uno ti graffio!

Vado!

È andato!
È bastato sgattaiolare tra le gambe della sua Domitilla per farla cadere tra le sue braccia. Lui ha tentato di darle un timido bacio, il nasone di lei gliel’ha impedito.
Pazienza, per questa volta si accontenterà della dolcezza del babà, mentre io lascio questo mondo qua per scompigliare quello di là.

Immagine dal web


Grazie a Valentina Luberto e alla sua splendida penna.
Senza di te questa storia non esisterebbe.