Ho navigato per mare e vissuto a contatto con la nuda terra.
Ho goduto del piacere di sentire il sole addosso e sofferto quando il vento raccoglieva le forze per trasformarsi in tempesta.
Ho abbandonato la mia casa, pur non essendomene mai andato.
México 1519
Hernán Cortés partito da Cuba, con una piccola armata di furfanti e mercenari in cerca di oro e fortuna, raggiunge le valli del Messico, nel tentativo di soggiogare e convertire le tribù indigene, in nome del re di Spagna, Carlo I.
Montezuma, imperatore azteco temuto e venerato come un dio, attende con trepidazione l’arrivo preannunciato del misterioso straniero, senza però intuire le sue reali intenzioni.
Astuto e ingannevole, il conquistatore non si lascia attendere e, invitato a corte dall’imperatore, raggiunge la capitale, Tenochticlàn, definita ‘città dei sogni’ per la sua maestosità e imponenza. Montezuma, durante un colloquio con lo straniero, è fatto prigioniero, dando così inizio all’imminente disfatta dell’impero, che culminerà con la nomina di Cortés a governatore della neonata colonia, denominata ‘nuova Spagna’.
Il calendario azteco, scolpito in un monolite di roccia basaltica, è vicino a segnare la fine delk’atun, quando per Cortés, richiamato in patria, arriva il momento di partire, di lasciare quella terra ostile resa docile con la forza.
Caricata la stiva di oro e di semi di papaya, patate, cacao, vaniglia e tomati, l’equipaggio è pronto a lasciare gli ormeggi.
Cortés, in piedi vicino all’albero di bompresso, si gira un’ultima volta, prima che il galeone spieghi le vele per ricondurlo in Spagna.
La casa di legno e mattoni di argilla, che lo aveva ospitato durante gli anni della conquista, lascia intravedere il suo tetto di canne, mentre il veliero prende il largo.
Ho percepito rollio e beccheggio farsi forti durante la tempesta e ho respirato aria nuova nel sentire annunciare ‘terra!’.
Troppo bello perché sia buono, questa è la mia condanna.
Di provenienza certa, ma di nome non sicuro, aspetto inerme che sia dato un senso al mio destino.
Italia, 1544
Pietro Mattioli, chiuso nella sua serra, osserva le piante importate da Cortés.
Sfiora le foglie con le mani, prende i frutti, li soppesa, studia colori e dimensioni.
Riporta ogni singolo parametro con cura in un taccuino. Ogni dato, messo nero su bianco, servirà in seguito a completamento della sua opera.
Pietro, noto erborista, sta componendo, infatti, il suo “Herbarius”.
Un frutto giallo e polposo attira la sua attenzione, mentre il sole ne evidenzia le screziature.
‘Mala aurea’, pianta velenosa con evidenti poteri afrodisiaci.
Pietro, pur ammettendo che Cortés avesse segnalato un uso alimentare di questa pianta da parte degli Aztechi e di aver sentito che qualcuno ne mangiasse i frutti fritti nell’olio, decide comunque di non cambiare la sua classificazione.
Usata da alchimisti e fattucchiere come ingrediente nelle proprie pozioni.
Pozione per rinforzare il proprio vigore fisico e sessuale, rigenerando il desiderio di amore:
Si mettano in una pentola in parti uguali: salvia officinalis; fiori di cedro; buccia di cetriolo; semi di melone; fiori e corteccia di cannella; polpa di mala aurea.
Si aggiunga quindi una quantità uguale di alcol e si faccia bollire per cinque minuti. L’infuso alcolico bevuto ogni sera produrrà in sé gli effetti desiderati.
Pianta ornamentale, data la sua naturale bellezza.
Introdotta così in Europa, Sir Walter Raleigh, navigatore e poeta, la porta in Inghilterra per farne dono alla regina Elisabetta I che, affascinata dal suo aspetto e dal suo potere raccontato, la battezza ‘love apple’.
Ho vissuto la mia vita, insieme a quella di tanti altri.
Ho sopportato il mio essere incompreso, bistrattato, per poi essere difeso.
Ho chiesto solo un po’ di sole, per dare in cambio cibo e amore.
Non è ben chiaro come e dove, nell’Europa barocca, il frutto compaia sulla tavola di qualche coraggioso, oppure affamato, contadino. Dato certo è che, verso la fine del 1700, la coltivazione alimentare della mala aurea riceva un forte impulso nel vecchio continente.
Mentre in Francia il pomme d’amour viene consumato solo alla corte del re, in Italia la mala aurea diventa di grande uso fra la gente.
Lazzaro Spallanzani, gesuita e naturalista, durante alcuni esperimenti di conservazione dei cibi, scopre che gli estratti di questo frutto, bolliti e messi in contenitori chiusi, non si alterano.
L’uso culinario della mala aurea inizia così a diffondersi in Europa con grande rapidità.
Paradossalmente, nel nuovo continente dal quale proviene, la sua affermazione, come frutto commestibile, trova invece molte più difficoltà, a causa della diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici.
Salem, New Jersey, 1808
Robert Johnson, avvocato che si occupa di questioni agricole, di ritorno da una missione in Italia, dove aveva potuto vedere consumare mala aurea, decide di portarne qualche seme con sé.
Nella speranza di far conoscere a tutti il suo uso alimentare, organizza un premio per il frutto più grande dell’anno.
Il tentativo di coinvolgere i suoi concittadini fallisce. Estirpare il preconcetto, ancora radicato, che quella fosse una semplice pianta ornamentale, per giunta velenosa, non si dimostra un’impresa facile.
Gli anni passano e nulla cambia
Nel 1820, il colonnello Johnson prova allora a dare una svolta a questa situazione di stallo. Davanti al municipio e alla presenza di una folla prevenuta, decide di mangiare mala aurea per sfatare il falso mito della sua velenosità.
Mentre la banda locale suona canzonatoria l’inno funebre, si appresta a dare inizio alla sfida.
La gente attonita lo osserva mangiare di gusto il frutto giallo e, rendendosi conto che il colonnello non solo non muore, ma anzi sembra apprezzare, si unisce al banchetto.
Nonostante il clamore dato dalla notizia, battuta da molti giornali nazionali, riguardante l’impresa di Johnson, il mito non può però ritenersi ancora sfatato.
Nel 1862, infatti, alcuni avversari politici del presidente Lincoln convincono il cuoco della Casa Bianca a preparare una pietanza a base di mala aurea, nel tentativo di avvelenarlo.
Il presidente, che solo dopo cena scopre la congiura, diviene in questo modo un appassionato consumatore di questo frutto.
La mala aurea si trasforma così in tomato, nel rispetto del nome originario azteco di ‘tomati’, vincendo finalmente ogni tipo di resistenza.
Ho navigato per mare e vissuto a contatto con la nuda terra.
Ho conosciuto la fama, tanto da farmi girare la testa.
Ho avuto molti ruoli, anche se in realtà resto sempre e solo un pomodoro.
Immagine da web
NOTE EXTRA RACCONTO:
- Tenochticlàn è l’attuale Città del Messico
- Un K’atun, secondo la struttura del calendario azteco, corrisponde a 7200 giorni.
- “mala aurea”, nome dato al pomodoro da Pietro Mattioli in virtù dei suoi frutti gialli.
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